Di quanta memoria hai bisogno oggi?
Il racconto del restauro di un instant classic degli anni ’80
e di un epoca in cui 128KB erano più che sufficienti.
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Crisi di mezza età
Immagino che a questo punto tu sia un po’ spaesato, perciò parto dall’inizio, o almeno dalla patologia medica che mi sono auto-diagnosticato per giustificare tutto questo: la crisi di mezza età.
Sono consapevole di avere “solo” 36 anni e che il progresso scientifico abbia spinto l’aspettativa di vita media ben oltre i 70 anni. Ritengo tuttavia che il ritmo frenetico delle nostre vite, abbia di fatto anticipato questo momento in cui si iniziano a fare dei bilanci, si ricordano con malinconia momenti passati e si tende a riscoprire il fascino di oggetti dell’infanzia: posseduti, perduti o da sempre sognati.
Nel mio caso posso dire di essere stato sedotto dall’idea di una missione impossibile: recuperare e riparare un computer iconico del passato, senza particolari capacità e competenze tecniche, se non una sana e innata passione per i computer. La scelta è ricaduta su un vero instant classic dell’informatica e del design industriale: il primo Macintosh.
Il Macintosh
Inizialmente affidato a Jef Raskin, il progetto “Macintosh” avrebbe dovuto essere il primo computer di Apple, espressamente rivolto alle famiglie e commercializzato sotto i 1.000$ 01.
Le cose andarono diversamente quando nel 1980 Apple decise di rimuovere Steve Jobs dal comando del progetto di bandiera “Lisa”, a causa del suo esasperato perfezionismo e della sua scarsa capacità di fare team.
L’idea di Apple era di spostare Jobs su un progetto di più basso profilo come il Macintosh, un progetto meno centrale per il futuro dell’azienda, nel quale la sua indole sarebbe stata più contenibile.
Jobs si ritrovò a dover passare dal progetto di un computer rivoluzionario come il Lisa, la prima workstation professionale di Apple con sistema operativo dotato di interfaccia grafica a icone e finestre utilizzabile con un mouse, al Macintosh, un computer low-cost di vecchia concezione con sistema operativo text-based, indirizzato alle famiglie.
Direzione Jobs
La sua prima reazione fu quella di allontanare Raskin e imporre una decisa svolta al progetto. Il Macintosh doveva rimanere un computer accessibile alle masse, ma non poteva esserlo solo da un punto di vista strettamente economico.
Per fare utilizzare un computer a chi non l’aveva mai fatto prima, il Macintosh non poteva rinunciare alla facilità di utilizzo data da un’interfaccia grafica e un mouse. Per la prima volta il computer avrebbe dovuto essere esposto in casa, alla stregua di un qualsiasi altro elettrodomestico. Per questa ragione non poteva rinunciare neanche ad un design di “folle bellezza”.
Questa nuova direzione, unita ad una campagna di marketing mai vista prima 01, fece salire alle stelle l’hype intorno al progetto, ma fece anche lievitare enormemente i costi di progettazione, produzione e promozione.
Il Macintosh fu presentato il 24 Gennaio 1984 02, e arrivò sugli scaffali americani al prezzo di 2.495$.
Pur trattandosi di un pricing competitivo pensando al posizionamento iniziale del Lisa (9.995$), e alle tante nuove tecnologie e features direttamente ereditate da esso, il Macintosh era comunque frutto di compromessi hardware, e si piazzava su una fascia di prezzo difficilmente sostenibile per la famiglia americana media.
L’obiettivo fu raggiunto a metà: finalmente il concetto di interfaccia grafica e mouse arrivò ad un vasto pubblico di utenti, ma ci arrivò grazie alla promozione e alla diffusione del Macintosh in ambienti educativi (scuole, università) e professionali (90% delle vendite totali) 02 03.
Il Macintosh era sulla bocca di tutti, ma non era ancora per tutti e le vendite non riuscirono mai a soddisfare davvero le aspettative. L’insuccesso non fu perdonato a Jobs, tanto che venne allontanato dalla societá da lui stesso fondata, prima della fine dello stesso anno.
- Steve Jobs (Book) - Walter Isaacson (2011)
- When the Mac Came to Market Street - LeBow College of Business Drexel University (2014)
- Computer makers find rich market in schools - New York Times (1984)
Inizia la ricerca
Ok, partiamo dall’ovvio. Il primo Macintosh (128K 04) non è piú in commercio da oltre 3 decadi. L’unico modo per averne uno è quindi trovare qualcuno disposto a cederlo o come direbbe mia moglie “a disfarsene”.
Sono abbastanza sicuro che negli Stati Uniti ci siano molti piú canali di vendita e occasioni per potersene accaparrare uno, ma in Italia escludendo una botta di fortuna ad un mercatino di elettronica vintage, l’unica opzione è eBay.
Dettagli da considerare
Devo ammettere di aver esagerato nell’introduzione: 128KB di RAM non erano poi così tanti neanche all’epoca, e gli utenti finirono per accorgersene presto 05.
Apple corse ai ripari qualche mese più tardi, quadruplicando la RAM con il modello 512K, e molti di quelli che avevano già acquistato il primo modello aggiornarono il quantitativo, facendo sostituire l’intera scheda madre. La RAM era saldata nel PCB, ed era più conveniente sostituire l’intera scheda madre con quella del nuovo modello, anziché dover sostenere il costo della RAM unito a quello della manodopera specializzata per sostituire singolarmente tutti i chip (16).
Pur parlando di un oggetto industriale prodotto su scala mondiale in centinaia di migliaia di pezzi, questa corsa all’aggiornamento (legittima all’epoca), unita alla necessità di manutenzione/sostituzione dei componenti nel corso degli anni, ha reso di fatto merce rara le unità ancora intonse.
Il mercato
Le poche macchine ancora veramente originali e funzionanti vengono oggi battute a prezzi compresi tra i 2.000 e i 4.000$ 06. Questa forbice molto ampia è spesso giustificata dalla condizione estetica delle varie parti, dal numero di serie che indica la settimana di produzione e dalla presenza di accessori e software a corredo.
Fortunatamente il valore scende anche vertiginosamente, quando a parità di condizioni e corredo, il computer viene venduto come non funzionante, a causa di un problema più o meno identificato da parte del venditore.
Il problema giusto
L’idea di comprarne uno da riparare, come si fa con una vecchia auto d’epoca che non parte più, mi galvanizzava. Il benefit immediato di risparmiare notevolmente mi convinse ad approfondire (non sapevo ancora che avrei comunque speso l’equivalente di un’unità già funzionante, nei mesi a seguire). Quello che mi serviva era:
- un Macintosh con un problema comune e ben documentato
- un problema sufficientemente complesso da non essere risolvibile da chiunque, ma neanche impossibile per me.
- un problema apparentemente circoscritto e identificabile da una fotografia o da un codice di errore.
- un Macintosh provvisto di tutti gli accessori minimi per essere utilizzato: tastiera, mouse, cavo di alimentazione e floppy di avvio.
- un Macintosh esteticamente in buone condizioni, così da poter essere almeno utilizzato come
fermacarteelemento di arredo, nel caso non fossi riuscito a ripararlo.
Dopo qualche mese di ricerca e qualche decina di proposte di acquisto rifiutate, riuscii a trovare la sintesi perfetta di tutti questi requisiti, nell’asta Ebay di un negozio di elettronica vintage a Tucson, Arizona.
Alle già numerose variabili date dall’acquisto di un oggetto non funzionante di quasi 40 anni fa, si aggiungeva anche quella di un viaggio intercontinentale, ma decisi comunque di provarci: Respiro profondo, occhi chiusi, e click sul tasto “Compralo subito” 03.
Da quel momento passarono più di 3 settimane, nelle quali alternai vari stati d’animo compresi tra la pura eccitazione, il rimpianto e la totale disperazione.
Ma poi eccolo. Finalmente il corriere alla porta. Apriamo. Spacchettiamo. Si! È proprio lui! Guardate che bellezza! 05-06.
Certo è un po’ sporco e ha qualche segno del tempo, ma provateci voi a stare in una soffitta per almeno 30 anni, attraversare un continente e presentarvi così ad un primo appuntamento.
- Macintosh 128K - lowendmac.com
- The history of the Apple Macintosh - mac-history.net
- Range di chiusura aste Ebay periodo 07-12/2022 per Macintosh 128K funzionanti.
Primo avvio
Sad Mac
Abbiamo un problema
Ok, il primo boot non è andato, ma non potevo aspettarmi diversamente.
Dopo aver spacchettato in fretta e furia l’imballaggio, collegato un riduttore di tensione alla presa, e acceso il computer 07, quello che sento è un [beeep] oramai familiare dopo tutti i video di riparazione visti su YouTube per prepararmi.
Intervallo del diavolo
Si tratta del famoso suono di avvio di Apple, ancora presente nella line-up attuale, su ogni Mac prodotto. Il suono pieno e rassicurante che possiamo ascoltare sui Mac di oggi si deve però ad un lavoro successivo 07, iniziato nel 1988 da Jim Reekes, ingegnere del suono.
Nell’84 infatti, i limiti hardware non permettevano di ottenere suoni così sofisticati e si dovette ripiegare su qualcosa di molto più semplice: un accordo di tre note dalle sonorità tutt’altro che rilassanti, noto addirittura nell’800 con il nome di “intervallo del diavolo” 07.
Sad Mac
Quello che invece vediamo sullo schermo è il Sad Mac, una delle leggendarie icone appartenenti al set originale disegnato da Susan Kare, appositamente per il primo Macintosh. Sfortunatamente per me, per quanto possa essere un vero e proprio manifesto della pixel art 08, questa icona rappresenta a tutti gli effetti un errore, e anche bello grosso.
In questa fase del boot, infatti, il computer esegue dei test sui vari componenti e la memoria viene riempita di dati per un successivo controllo di coerenza. Il fallimento di questo test certifica un malfunzionamento hardware, identificato da un codice di errore specifico, che viene riportato subito sotto l’icona.
Il codice che ho vinto io è il 04040A
Negli anni 80 e 90, le informazioni per poter decifrare questi codici di errore, non erano riportate in maniera approfondita neanche nei manuali di assistenza tecnica di installatori e riparatori 09. In caso di Sad Mac, l’iter generico suggerito prevedeva quasi sempre la sostituzione dell’intera scheda logica.
Fortunatamente con l’avvento di Internet, Apple ha digitalizzato e reso disponibili pubblicamente indicazioni più dettagliate, che permettono di interpretare il codice per intero e circoscrivere l’origine del problema a dei componenti più specifici.
La tabella presente a questo link rappresenta la mia Stele di Rosetta, per la decodifica dell’errore.
It’s a memory trap!
Finalmente il codice è “chiaro”. I primi 2 caratteri (04) rappresentano la tipologia di test fallito “Memory Mod3 test”, mentre ognuno dei 4 caratteri successivi (040A) identifica lo stato di un set composto da 4 chip di memoria, per un totale di 16 chip totali.
I singoli chip danneggiati all’interno di un set, vengono identificati da un numero (1, 2, 4 o 8), che corrisponde a loro volta ad una coppia di coordinate composte da una lettera (F o G) e un numero (da 5 a 12) che ne determinano l’esatto posizionamento all’interno della scheda madre 08.
0 | 4 | 0 | A |
---|---|---|---|
1G9 | 1G5 | 1F9 | 1F5 |
2G10 | 2G6 | 2F10 | 2F6 |
4G11 | 4G7 | 4F11 | 4F7 |
8G12 | 8G8 | 8F12 | 8F8 |
Se mi avete seguito fin qui, la domanda che probabilmente vi sarete fatti è: se ogni carattere può assumere solo valore 1, 2, 4 o 8 che diavolo ci fa una A nel mio codice di errore?
La risposta è diventata chiara grazie all’esperienza di un utente sul forum 68kmla.org, come me in possesso di un codice di errore con un carattere imprevisto. Ogni carattere identifica il chip difettoso all’interno di un set di 4 chip, ma quando sullo stesso set esiste più di un chip difettoso, il carattere corrisponderà alla somma di ognuno di essi in formato esadecimale.
La A
(10 in formato decimale) presente nell’ultimo carattere del mio codice di errore, rappresenta quindi la somma dei chip 2
+ 8
, corrispondenti alle posizioni F6
e F8
all’interno della scheda madre.
- Hear the Evolution of Apple’s Iconic Startup Sound for the Mac - Wired (2014)
- The Woman Who Gave the Macintosh a Smile - The New Yorker (2018)
- Apple Service Guide for Macintosh Computers - Apple (1991)
Possiamo farcela
Finalmente abbiamo identificato i 3 chip di memoria danneggiati e il loro posizionamento all’interno della scheda madre. Si tratta dell’MT4264 10 un chip DRAM da 64Kbit prodotto da Micron Technology e praticamente onnipresente in qualsiasi computer dell’epoca (con sigle e codici diversi a seconda del produttore) 11.
Anche in questo caso parliamo di un circuito integrato non più in produzione da anni, e pertanto disponibile solo attraverso canali privati (usato) o tramite rifornitori specializzati in componentistica vintage.
Malgrado le tante aste Ebay molto più vicine geograficamente, ho deciso questa volta di affidarmi a Jameco 12, uno storico rivenditore californiano, suggerito con insistenza nelle mie ricerche preliminari su forum specializzati 11.
Apriamolo!
Ok, so che dall’animazione lo smontaggio sembra davvero facile e veloce, ma nel mondo reale esistono anche viti, cavi, polvere e tubi catodici che mantengono tensioni elettriche estremamente alte (nell’ordine dei 10kV), anche dopo minuti dallo spegnimento 13.
Proprio perché rivolto per la prima volta ad un utente non professionale, il Macintosh 128K era anche un computer espressamente progettato per scoraggiare la riparazione autonoma, rendendo particolarmente difficile anche la sola apertura del case.
Per l’esterno furono scelte infatti delle viti con intaglio Torx T15 (estremamente poco comuni per l’epoca) che furono posizionate molto in profondità, in corrispondenza della “maniglia” superiore, rendendo di fatto necessario l’utilizzo di un cacciavite estendibile o sufficientemente lungo 14.
Diversamente da qualsiasi altro computer dell’epoca, il Macintosh fu deliberatamente “blindato”.
Malgrado tutte queste complicazioni, posso confermare che nel 2024 la situazione è davvero più semplice. Tutto l’occorrente è oggi facilmente recuperabile in una qualsiasi ferramenta. Mentre per arrivare a sfilare la scheda madre con i suoi chip danneggiati è sufficiente una minima capacità manuale, qualche piccola precauzione, e il teardown dettagliato di iFixit sotto mano.
Operazione a cuore aperto
A questo punto avrei voluto dirvi che da vero MacGyver ho sostituito i chip danneggiati sulla scheda, avvalendomi solo di una banana e una graffetta, ma viste le mie scarse skills con il saldatore, non me la sono davvero sentita di mettere le mani su una scheda più vecchia di me e a me così cara.
Si, ho barato. La mia famiglia brulica di figure molto più a loro agio con l’hardware di me, e non ho resistito alla sicurezza di delegare l’operazione a mio cugino Luca Giorgi, progettista elettronico di professione e anima pia quando si tratta di assecondare i miei capricci.
Luca ha pazientemente fatto sciogliere lo stagno su ogni piedino, per poi catturarlo con una pompa aspira stagno, fino a liberare ogni chip danneggiato dalla propria sede 09. Dopo aver ripulito la zona 10, l’intervento è stato completato risaldando sulla scheda dei socket da 16 pin, sui quali sono stati installati i nuovi chip acquistati 12.
Non ci rimane che incrociare le dita e riprovare ad accendere.
Il suono di avvio è sempre quello poco rassicurante di prima, ma questa volta il monitor sembra iniziare ad illuminarsi... A differenza dell’ oscurità del Sad Mac, arriva finalmente una schermata a fondo chiaro che ci mostra per la prima volta tutta la luminosità del monitor.
L’icona presente al centro ci conferma il corretto avvio e che il sistema è in attesa di un floppy per iniziare. Non siamo ancora pronti per questo, ma il problema più importante è risolto e l’unica cosa che riesco a dire è “bellissimo” 13.
- Micron MT4264 Technical sheet - Micron Technology - tvsat.com.pl (1991)
- Examples of 4164 class RAM chips - minuszerodegrees.net
- Jameco IC 4164 product page - jameco.com
- The Truth About CRTs and Shock Danger - Daniel Knight - lowendmac.com (2007)
- Macintosh 128K Teardown - iFixit (2014)
Hard disk?
Quale hard disk?
Sono sicuro che alla domanda “Di quanta memoria hai bisogno oggi?”, avrai subito pensato alla capienza del tuo hard disk, SSD, o in generale alla tua unità di archiviazione permanente.
Beh, devo confidarvi un segreto: escludendo una piccola ROM dedicata al software di base, il Macintosh 128K non ha nulla di permanente. Oltre ai 128KB di RAM non esiste infatti nessuna ulteriore memoria interna in grado di salvare dei dati che possano minimamente sopravvivere ad un riavvio del computer.
L’unità floppy gioca quindi un ruolo fondamentale, rappresentando di fatto l’unica possibilità non solo per archiviare il proprio lavoro, ma anche banalmente per caricare il sistema operativo stesso e poter effettivamente avviare un Macintosh.
Floppy drive
L’unità floppy da 3 pollici e mezzo installata sul Macintosh 128K era una assoluta novità per l’epoca. Apple fu infatti uno dei primi produttori a scegliere il nuovo formato, che negli anni a seguire sarebbe diventato lo standard per l’intera industria informatica.
La dimensione contenuta e l’involucro rigido, oltre a proteggere l’integrità e la superficie del disco da danni accidentali, faceva diventare finalmente il floppy disk un oggetto bello da vedere e un “perfetto esempio di buon design” 15.
Questa prima iterazione aveva tuttavia dei limiti. Malgrado il nuovo standard sviluppato da Sony prevedesse già floppy a doppia faccia con una capacità formattata di 720KB, l’unità poteva leggere e scrivere esclusivamente su una delle due, dimezzando di fatto la sua capacità totale. Apple introdusse inoltre uno standard di formattazione hardware che rendeva possibile salvare fino a 400KB su una singola faccia, ma risultava incompatibile con qualsiasi altro sistema 16.
Manutenzione
In mezzo alla marea di incognite legate al restauro di un retro-computer, esiste una certezza sulla quale poter scommettere: la vostra unitá floppy avrá bisogno di manutenzione.
A differenza di qualsiasi altro componente prettamente elettronico all’interno della macchina, il drive è composto per la maggior parte da elementi meccanici responsabili dello scorrimento, alloggiamento ed espulsione del disco. Per funzionare, questi elementi hanno necessità di mantenere una corretta lubrificazione, e non c’è niente di peggio di un grasso lubrificante lasciato seccare in una soffitta per 40 anni, per bloccarne totalmente la funzionalità.
Il mio Macintosh non ebbe sconti. Il primo floppy che provai ad inserire riuscí a malapena a superare la soglia di ingresso.
Sporchiamoci le mani
Una volta aperto il case del Macintosh, lo smontaggio dell’unità floppy è praticamente immediato: è sufficiente svitare un paio di viti per liberare l’unità dal supporto inferiore che sostiene anche la scheda madre.
Come previsto, quello che ci si presenta davanti è un drive con le guide laterali completamente bloccate dal grasso lubrificante del 1984 ormai solidificato. Al di lá dell’apparente gravitá della cosa, vi assicuro che per ripristinare la mobilità di tutti i componenti meccanici è bastato:
- Ripulire ogni giuntura dal grasso di lubrificazione solidificato con un cotton fioc imbevuto nell’alcol 15
- Riapplicare nuovo grasso lubrificante 16
- Ritestare lo scorrimento del carrello manualmente 17
Semplice vero? Si, quando puoi contare su una videoguida passo a passo come quella preparata da JDW sul suo canale YouTube.
Non ci rimane che riassemblare il computer, inserire il floppy di avvio 18, e incrociare nuovamente le dita...
- The Design of Everyday Things - Donald Norman (1988)
- Macintosh External Disk Drive - Wikipedia
- Apple Macintosh (128K) - Retroviator (2021)
Assembliamo
Accendiamo
Alleluia
Non è vecchio.
È Vintage.
Vi giuro che questo capitolo non era proprio stato programmato. Per diverso tempo considerai terminato il mio progetto di restauro:
- Tutti i componenti danneggiati erano stati riparati.
- Il computer si poteva accendere e utilizzare.
- Da Ikea avevo trovato il mobile perfetto per esporre/utilizzare il Macintosh, occupando poco spazio in casa
evitando così di venire cacciato da mia moglie. - In più avevo appena scoperto Floppy Emu, un emulatore di floppy che mi avrebbe permesso di provare tutto il software mai creato per Macintosh 128K, senza indebitarmi ulteriormente.
Insomma, cosa mai avrei potuto desiderare di più? Si, è vero, il case era ancora un po’ sporco e ingiallito, ma in fondo non era proprio questa la perfetta rappresentazione del suo vissuto e del “carattere” di questa macchina iconica?
Per diverso tempo mi convinsi di questo aspetto romantico e che non valesse la pena rischiare di riaprire e smontare completamente un Macintosh che aveva appena ripreso a funzionare, per un mero fine estetico. Fino a che la mia cronologia non iniziò a riempirsi di articoli e video di retrobright, e nel mio cervello iniziò a insinuarsi un nuovo tarlo.
Retrobright
Si tratta di una miscela elaborata da Dave Stevenson, chimico inglese appassionato di retrocomputer 18, che mira a ripristinare il colore originale delle plastiche ABS 19, largamente utilizzate nella produzione dell’involucro di qualsiasi genere di dispositivo elettronico degli ultimi 50 anni.
Stevenson teorizzò che non era l’ABS ad ingiallire, bensì il bromo, un elemento aggiunto all’ABS come ritardante di fiamma. Esposto ai raggi UV del sole, il bromo tenderebbe naturalmente a tornare al suo colore originale, il marrone, causando l’ingiallimento dell’intera plastica 20.
La formula del Retrobright è stata rilasciata pubblicamente nel 2008 e si basa su un miscela di acqua ossigenata in alte concentrazioni (10%–15%), ossigeno attivo e addensanti per rendere il prodotto spalmabile.
Il risultato di questa formula è un gel, che spalmato sulle plastiche ed esposto ai raggi UV dovrebbe ridare la molecola di ossigeno al bromo, invertendo il processo di ingiallimento.
Ho usato il condizionale perché dal 2008, la comunità di appassionati ha continuato a testare e implementare la miscela, creando decine di ulteriori variazioni 21. Negli anni sono stati documentati anche insuccessi ed effetti a lungo termine sulle plastiche, che hanno finito per mettere in discussione sia la responsabilità del bromo e dei raggi UV nel processo di ingiallimento, sia il composto e il metodo stesso 22.
Ammetto che malgrado tutta questa grande mole di dati su cui documentarmi, la mia totale ignoranza in chimica e la stragrande maggioranza di recensioni ultra-positive, mi fecero davvero chiudere gli occhi su ogni possibile rischio e risvolto negativo. Volevo dovevo provarci!
Tutto sotto controllo
Per il mio piccolo esperimento, scelsi una delle giornate più luminose (e calde) dell’anno, vista l’importanza dei raggi UV nel processo. Dopo aver rimosso ogni etichetta, logo o targhetta che potesse rovinarsi 20, lavai accuratamente ogni plastica per evitare residui di sporco o polvere dalla superficie 21-22.
Preparai circa un litro di Retrobright, che poi riportai gradualmente in una bacinella per essere spalmato su ogni plastica 23. Per evitare di fare evaporare rapidamente il gel con l’esposizione al sole, scelsi di ricoprire ogni plastica con una pellicola 24, come suggerito da diversi tutorial. Con il senno di poi, fu il primo di tanti errori.
Dopo circa 2 ore di esposizione, decisi che era arrivata l’ora di controllare l’esito di questo primo tentativo, ed ecco il primo colpo al cuore. Malgrado la pellicola, il gel era quasi completamente evaporato e non l’aveva fatto in maniera uniforme, ma seguendo le pieghe della pellicola stessa. Il risultato era sconcertante. La miscela era riuscita a schiarire solo alcune zone della plastica, “disegnando” delle macchie e striature lungo tutte le superfici 25-26.
Panico
Da qui in poi iniziai a procedere con una serie di maldestri tentativi, nella speranza che un nuovo passaggio avrebbe potuto ri-uniformare la colorazione. Provai prima a ripetere la procedura senza pellicola, rispalmando il gel ogni 20 minuti per una mattina intera così da evitare l’evaporazione, poi replicando il processo in un ambiente con luce UV controllata 27.
In entrambi i casi riuscii esclusivamente a schiarire proporzionalmente le varie zone. Le parti che erano scure diventavano più chiare, ma lo facevano anche quelle già chiare, schiarendo ulteriormente e mantenendo di fatto le striature iniziali.
Piano B
Capii rapidamente che ogni ulteriore tentativo sarebbe stato vano, e avrebbe continuato ad indebolire ulteriormente delle plastiche già provate dai vari trattamenti. Seguirono alcune settimane di sconforto, nelle quali mi riaffaciai timidamente su eBay per seguire aste di pezzi di ricambio a prezzi folli. Poi optai per l’unica soluzione sensata: verniciare le plastiche.
Curiosamente la verniciatura della plastica fu abbandonata da Apple proprio con il Macintosh. Si pensava che produrre una plastica ABS giá del colore corretto, avrebbe evitato la naturale variazione di colore della vernice a contatto con la luce del sole. Paradossalmente accadde l’esatto opposto: tutte le plastiche verniciate dei modelli precedenti, riuscirono a reggere molto meglio alla prova del tempo 23.
Questa volta grazie a Dio decisi che era meglio rivolgersi direttamente a dei professionisti. L’unico mio sforzo fu quello di ricercare la reference colore corretta 24. Affidai il lavoro ad una carrozzeria in zona, specializzata in verniciatura su plastica, che eseguí un lavoro davvero certosino 28-29.
Che dire? Non solo il Mac era tornato “presentabile”, ma era diventato quasi un oggetto da esposizione 31 e io avevo finalmente terminato le idee per mettere nuovamente a repentaglio la sua incolumità.
Il restauro poteva finalmente considerarsi concluso. Giusto in tempo per festeggiare i 40 anni del Mac!
- The “Retr0bright” Project - retr0bright.com (2008)
- Acrylonitrile butadiene styrene - Wikipedia
- Retr0Bright: come ripristinare le plastiche ingiallite (IT) - Giacomo Vernoni
- New retrobrite techniques - The 8-Bit Guy
- RetroBright treated plastics re-yellowing even with minimal light exposure? - Terry Stewart’s (Tezza’s) Blog
- What color was “Apple Beige”? - Ben Zotto
- Mac 128k color - 68kMLA Forum